IMPARO IL SICILIANO


"Sono siciliana e fino ad undici anni ho vissuto in un piccolo paese dell’ entroterra. La mia infanzia è trascorsa tra giochi e affetti familiari da vivere son solo tra le mura domestiche o scolastiche, ma anche sulla strada. Vicoli e cortili erano luoghi deputati a giocare a nascondino, a “il più bel castello”, a “incatenata”, ai “pisuli” e tanti altri giorchi. Per strada, prolungamento della casa, giocavamo sereni, lontani dai pericoli delle macchine che oggi invadono strade e stradine, in un ambiente in cui ci sentivamo “sicuri”. Gli abitanti dei piccoli centri si conoscevano tutti tra di loro. Una sorta di “tribù” dove, per vie dirette o indirette, quasi tutti erano uniti da una linea di rispettosa parentela che talvolta partiva da molto lontano (bisnonnni cugini tra loro), ed anche parentele molto più fittizie, come i bambini eravamo invitati a chiamare “zia” o “zio” le persone anziane con cui i nostri familiari intrattenevano rapporti di amicizia. Quando la “parentela” non era facilmente individuabile, la domanda più frequente che i bambini ci sentivamo rivolgere dai “grandi” era: “A cu’ apparteni?” (A chi appartieni?), e bastava dire il nome dei genitori per essere immediatamente individuati. L’appartenza ad un nucleo familiare, talvolta sottolineato più da un soprannome inteso “incuria” che dal vero cognome, era caratterizzante di uno status, ossia della somma di tante “identificazioni”: stirpe, condizione economica, sociale, morale e culturale, che poteva essere sprone per unioni e che, talvolta era, tristemente, anche fonte di pregiudizi e divisioni. Un micro mondo dove l’identità era un fattore preminente. Ci si identificava con la propria famiglia, con gli amici, con i vicini, con il paese, con la regione, con la nazione. Ci si sentiva parti di un tutt’uno con l’orgoglio delle proprie radici, in senso lato. Un micro mondo che traslato nel macro mondo trova i suoi punti di riferimento. Senza scendere nello specifico di indagini sociologiche, è indubbio che una delle connotazioni che nel secolo scorso ha fortemente contraddistinto la identificazione dei Siciliani nel mondo che, nel novero della italianizzazione, della emigrazione, e non solo, hanno spesso perduto la propria “identità culturale” è stata una “inciuria” altamente deleteria ed offensiva. Un appellativo che man mano ha sostituito i valori positivi della Sicilia e dei Siciliani mettendo in mostra quanto di più negativo essa abbia espresso. Quando mi recavo fuori regione e mi presentavo, fiera della mia “appartenenza” alla Sicilia, spesso venivo etichettata con quella maledetta “inciuria” che tanto dolore provoca agli onesti: “mafia!”. Fortunatamente la conoscenza della mia “appartenenza” ad una terra ricca di storia e cultura, di tradizioni e sentimenti, pur nella consapevolezza anche degli aspetti negativi che vanno fronteggiati a testa alta, mi ha dato il giusto orgoglio per non accettare quella facile, stupida, “folcloristica” e arrogante “inciuria”. E’ indubbio che se si ha la conoscenza di “sé”, si è meno attaccabili, meno fragili, meno omologabili. Anche per questo, ognuno di noi ha il dovere di farsi “memoria”. L’amore per la propria storia, la propria terra, la propria gente, la propria cultura ha un senso solo se sa farsi condivisione. Spero che i giovani che leggeranno questo testo, alla domanda “A cu’ apparteni”, possano rispondere con orgoglio: “Alla Sicilia!”.